domenica 27 agosto 2017

Rullo di tamburi!

di Simona CASAGRANDE

Anche quest'anno Laigueglia festeggia, con grande entusiasmo "Lo Sbarco dei Saraceni"  la cui prima edizione risale agl'anni '80.
Tutto é pronto per il 4 agosto!

A marzo, in comune, sono stati selezionati i fuochi pirotecnici, che accarezzano le note, sapientemente scelte dal regista Silvano Montaldo, che da più di dieci anni coordina e dirige con successo questo meraviglioso spettacolo. Tutto il materiale di scena é stato preparato in primavera e le palline di gomma piuma, sono arrivate la scorsa settimana. Anche i costumi per la battaglia sono stati confezionati. Le iscrizioni per i figuranti si sono chiuse e anche quest'anno sono centinaia, tra cui anche molti bambini, che per settimane si sono cimentati, con grande entusiasmo, nei loro ruoli, guidati nei loro passi da Simona Casagrande, e la prova generale é ora alle porte. Gli equipaggi dei pirati stanno preparando con cura i loro gozzi, mentre i difensori stanno organizzandosi in gruppi per respingere il nemico. La proloco, che cuce gli stendardi e le bandiere crociate, ha già ornato tutto il centro storico ed é pronta con il suo stand di frittelle per catturare le voglie dei più golosi; molti commercianti hanno esposto anche le bandiere con il teschio; alberghi, locande e ristoranti, già da diversi giorni, a richiesta, cucinano per i loro commensali, prelibatezze tratte da ricette risalenti al Rinascimento.
I velieri Pandora e AmoreMio, che completano la scenografia dello spettacolo, stanno giungendo nella baia e il sindaco, attivissimo in tutti gli eventi, ha già convocato le decine di volontari, che dislocati per terra e per mare, nelle varie zone del paese, contribuiscono alla buona riuscita della manifestazione.

Tutti attendono con ansia che le suggestive note di Massimo Spinetti aprano il sipario, per godere ancora una volta di uno spettacolo impareggiabile, capace di trasmettere grandi emozioni a chi ne é spettatore, ma soprattutto a coloro che ne calcano le scene, diventando protagonisti di una notte magica.




Pubblicato da MEDIAGOLD  il 2 agosto 2017

sabato 28 gennaio 2017

Sognando quello che fu

di Simona CASAGRANDE


Spesso mi è capitato di vedere foto di Alassio dell’inizio del sec. XX e mi hanno affascinato le radicali trasformazioni che ha subito nel tempo: rispetto ad oggi mi sembra del tutto irriconoscibile. Il centro cittadino, dove vi sono strade, case su case, allora non era altro che una verde pianura coltivata ad ortaggi con alberi di frutta…. E mi viene da sorridere pensando come nel 1907, durante la prima edizione della Milano-Sanremo, i ciclisti partecipanti dovettero transitare s’una stretta strada lastricata, l’attuale budello, perché non esistevano altre strade.
Che bella l’Alassio dei nostri nonni e bisnonni… e non mi riferisco alla leggenda di Adelasia ed Aleramo, che la nonna ci raccontava, come fosse una favola dei fratelli Grimm, accompagnandoci nelle braccia di Morfeo… ma a quell’Alassio che noi distrattamente vediamo, ma non guardiamo, perché viviamo la vita ascoltando il ticchettio dell’orologio e non ci soffermiamo ad ammirare le bellezze che ci circondano, tanto famigliari, ma incredibilmente sconosciute.

Ed è così che nel tepore dell’alba, quando il sole fa capolino all’orizzonte, dietro all’isola Gallinara, e mentre tutti dormono ancora,  passeggio, sguazzando con i piedi nell’acqua del mare ancora fredda, ed incontro, in borgo Barusso, posta s’uno scoglio, come a volermi aprire la porta, invitandomi ad una visita del centro storico, ancora deserto, la chiesa dedicata alla mamma di Maria, Sant’Anna.
Accetto l’invito e sognando un mondo antico, percorro via Vittorio Veneto, una parte del cosiddetto “budello”, costeggiata da eleganti negozietti, di cui noi, passando, scrutiamo sempre le colorate vetrine, interessati ai capi di alta moda che ci abbagliano legandoci al presente o proiettandoci nel futuro, ma che c’impediscono d’ammirare il passato di questi luoghi.

Passeggiando, sul lato destro, trovo subito tre grandi portoni incorniciati da neri portali in ardesia scolpiti: la chiesa della Carità. Fu eretta insieme all’Hospitium  Peregrinorum  tra il 1307 ed il 1310 da armatori alassini, in  seguito alla mancanza di alloggi durante il passaggio delle folle di pellegrini, diretti a Roma  per il I Giubileo, indetto da Bonifacio VIII nel 1300. Nel 1315 vi sostò anche San Rocco di Montpellier. Allora L’Hospitium aveva la capacità di ventisei posti letto, una cucina e l’annessa chiesa. Con il passare degli anni venne ampliato e divenne il primo ospedale civico. Oggi è un rinomato albergo.

Cerco così d’immaginare i pellegrini, nelle loro umili vesti, attraversare questa lunga striscia di piccole case, al massimo due piani, modeste, senza pretese, affiancate l’una dall’altra, lungo la costa, fino a formare una lunga via racchiusa tra le due porte cittadine ed il resto campi coltivati…  mi sembra quasi di poterne vedere i colori, sentire gli odori, i rumori, i silenzi…
Così camminando, ancora sognante, incontro a destra, quasi ad angolo con p.zza Matteotti, prima della farmacia, un grande portone in ferro di colore verde scuro, sovrastato da una mezza luna in ferro battuto: palazzo Scofferi che nel periodo napoleonico, fu sede del municipio.

Guardando questa strada così lastricata, sento ancora rimbombare, tra i muri delle case, lo scalpitio degli zoccoli ferrati dei cavalli, allora unici mezzi di trasporto, e cerco d’immaginare le nostre bisnonne, ancora giovin donzelle, passeggiare spettegolando nei loro abiti semplici, lunghi e pesanti, dalle stoffe ruvide e pungenti, dai tagli severi, dai colori scuri e tristi….

Camminando incontro diversi portoni di altri nobili palazzi, tra cui un altro palazzo Scofferi, di un altro ramo della famiglia e Palazzo Bonfante.
I nobili qui erano di matrice imprenditoriale, nobilitati, non per nascita, ma per servigi e benemerenze acquisite, e non gareggiavano tra loro, per cui costruirono le loro dimore di modeste proporzioni a poca distanza l’una dall’altra.
Ed ecco del sec. XVI  e XVIII, il palazzo dei cittadini più illustri: i marchesi Ferrero Gubernatis di Ventimiglia. Le finestre contornate di colore giallo sullo sfondo mattone della facciata, con un portone talmente maestoso che mi chiedo come si possa passargli davanti senza che venga notato, eppure sono pochi coloro, alassini e non, che restano catturati da tanto splendore. I battenti di ferro, sul portone centrale, fuoriescono dalla testa di Bacco ed i portali in marmo bianco, hanno altorilievi con frutta, fiori e melograni a fargli da cornice; al centro, in alto, un grande stemma in marmo rappresentante uno scudo su fondo oro con tre righe nere; sui lati due altorilievi in marmo bianco con due grandi vasi pieni di fiori e frutta.

Non resisto alla tentazione di esplorare ulteriormente il palazzo e corro incuriosita sul retro dove, in via Cavour, trovo ad attendermi un fantastico giardino curato con l’amore che si addice solo ad uno scrupoloso giardiniere: pieno di aiuole con fiori di ogni specie e colore, e poi abeti, palme e cipressi…
Immersa nell’intenso colore giallo di una rosa ancora socchiusa, chiudo gli occhi e subito sento le giovani voci dei figli dei marchesi di allora che, giocando spensierati, corrono tra le piante, celandosi tra i cespugli con i loro elegantissimi abiti in pizzo e merletti, soffice velluto e sottile organza; immagino quello spettacolare giardino arrivare ai piedi della collina, e non soffocato, come ora, dagli alti e moderni palazzi che lo circondano, ma molto più vivace, più allegro, più libero, più luminoso….

Giunta all’angolo di via Cavour con via Dante, camminando con il naso in su, ancora assorta, scorgo un bel palazzo bianco, con ringhiere e sottobalconi in ferro battuto nero, in stile liberty, quello che fu lo storico “Caffè Roma” raduno del jetset internazionale negli anni ’50.

“Quel muricciolo anonimo così spoglio, semplice contenimento al terriccio dei giardini pubblici, è indegno della vivacità dei passanti e della sensibilità degli ospiti seduti ai tavolini di un caffè così elegante”, disse un giorno Mario Berrino, il titolare del noto locale, ad Hemingway, mentre questi firmava il “libro dei ricordi”. Ma proprio in quell’istante gli venne l’idea di trasferire gli autografi, di tutti quei personaggi illustri, che aveva raccolto negli anni, su piastrelle di ceramica colorata, di varie forme e dimensioni, e rivestirne quel “Muretto” così spoglio, cosicché tutti potessero contemplarli.

Dietro al Muretto, nascosto dagli enormi alberi del giardino, dal 1904, il Palazzo del Comune che dall’esterno sembra quasi Montecitorio, spostato da piazza Airaldi e Durante (ora sede della posta centrale), ha preso il posto del convento delle Clarisse che sorgeva qui dal 1603, poi spostatesi in località Belvedere.
Mi siedo qui s’una panchina nascosta fra i cespugli ad ammirare il secolare abete che altero e silenzioso, come un vecchio saggio, domina le coloratissime aiuole dei giardini comunali e penso a quante cose, a quanti cambiamenti ed innumerevoli trasformazioni abbia assistito nel trascorrere della sua lunga vita: prima le verdi distese incontaminate, poi i campi di ortaggi, gli alberi da frutta, poi ancora la strada sterrata, i cavalli, le carrozze, le rumorose e puzzolenti automobili, il semaforo intelligente ed infine la rotonda…

Ma ecco un lungo, fastidioso ed assordante suono stridulo, come di ferraglia, irrompere la pace del mattino: è l’intercity delle 7.30 per Genova. Alzo lo sguardo dietro l’abete ed intravedo la “nuova” stazione ferroviaria, costruita nel 1914, s’un terreno che fu della famiglia Hanbury, la quale lo concesse gratuitamente a condizione che tutti i treni passeggeri in transito da Alassio, vi si fermassero. E rivedo, le romantiche carrozze, con le caratteristiche cappelline estive o i pennacchi festosi sul capo dei cavalli che tutte ordinatamente in fila, attendevano i turisti che comodamente aprivano le vacanze alassine con una romantica passeggiata per poche lire.

Attraversata piazza Partigiani, verso levante, giungo ad una maestosa costruzione, in stile liberty, da poco restaurata: il Grand Hotel. Del 1871, era allora l’albergo più elegante del ponente ligure, solo una decina di anni più vecchio dell’Hotel Mediterranee, era affiancato anche da un casinò che ha lasciato il posto alla grande piazza.
Furono gli anni in cui i medici cominciarono a consigliare la balneazione nelle acque marine, quale metodo naturale per la guarigione di diverse malattie. Così le spiagge cominciarono timidamente ad animarsi di ultra pudichi bagnanti e proprio qui davanti sorse qualche anno dopo, il primo stabilimento balneare della cittadina, “L’Anfitrite”, affiancate in breve tempo dalle cabine del collegio salesiano. Pochi sanno che a questo proposito, nel 1906, le autorità comunali, emisero un’ordinanza, secondo la quale era severamente proibito percorrere o intrattenersi per le vie del paese in accappatoio, era solo tollerato l’andare con tale abbigliamento dall’abitazione al mare: molto simile ad un’attuale ordinanza!
Questi furono anche gli anni in cui i primi precursori del nostro turismo, gli inglesi, scelsero questo luogo per il loro soggiorno invernale, coronandone le alture di eleganti ville circondate da incantevoli parchi e verdi giardini: con una loro biblioteca, una farmacia, il teatro, i campi da tennis, la chiesa anglicana… eravamo quasi una loro colonia!

Tra questi il pittore Richard West che, vivendo a Villa Bianca (l’attuale hotel Beau Rivage), proprio di fronte al mare, stravagantemente faceva il bagno ogni mattina, in ogni stagione dell’anno. Alla Memorial Gallery, una delle pinacoteche comunali, è possibile riconoscere le caratteristiche della sua arte, in un’ottantina di quadri, che la figlia Katleen, nel 1963, alla morte del padre, ha donato alla città.
   Passato il Grand Hotel, proseguendo sul lungo mare, incontro il possente torrione di Borgo Coscia, del XVI sec., eretto dalla Repubblica di Genova per la difesa dei paesi costieri contro i saraceni.


E proprio in questo angolo di storia, a conclusione della mia passeggiata mattutina, mi siedo sugli scogli grigi, tra i bianchi gabbiani ed ascoltando in silenzio il fruscio del mare, l’infrangersi delle onde ed il gorgoglio delle pietre, non posso non osservare lo splendido golfo, illuminato dal sole ormai alto: da un lato Capo Mele e dall’altro Capo Santa Croce che sembrano volersi allungare in un abbraccio… su nel cielo qui e là dei parapendii che avvolti da sfumature di mille colori si lasciano librare nell’aria… li guardo e penso a questi luoghi… il passato, il presente ed il futuro… penso ad Icarus, al suo sogno infinito… 





mercoledì 7 maggio 2014

Una Vita Vuota di Certezze

di Simona CASAGRANDE
 
«Massaccio?» chiede, ai passanti, una ragazza cinese, vestita di tutto punto, camminando sul bagnasciuga con le ciabatte tra le mani; mentre una sua collega, con l’olio di canfora, massaggia tranquillamente, senza inibizioni, le parti intime di un uomo sdraiato nudo a gambe larghe, tra i cespugli delle dune. È la spiaggia naturista di Capocotta, popolata da una fauna meno stravagante di quel che si pensi: il maschio, alla vista dei passanti, si alza in piedi facendo la ruota come un gallo cedrone, la femmina, invece, come una timida cerbiatta, si ritrae girandosi prona, quasi a volersi celare.
In acqua, poco lontano dalla riva, un uomo di colore, incurante dello spettacolo, tira uno strano strumento fatto di una sottile maglia di ferro terminante con grandi e lunghi rami. Setaccia, a gran fatica, il fondale, osteggiato dalla forza delle onde, per raccogliere delle piccolissime conchiglie grigiastre, le telline: un prelibatissimo mollusco che nel pomeriggio venderà ai ristoratori della zona. Non sa, però, che in Liguria, ogni mattina, all’alba, là dove l’onda si allunga per abbracciare la spiaggia, centinaia e centinaia di telline, spinte dall’alta marea, formano una sottile striscia bianca. Prima che il setaccio dei bagnini ripulisca il bagnasciuga, i bambini le raccolgono velocemente con i secchielli, per addobbare i castelli di sabbia, per farne, con grande ingegno e maestria, collane, braccialetti, cavigliere e anelli che nel pomeriggio distribuiranno ai turisti. «Solo due euro signora, è tutto artigianale, fatto da me!». E a loro nessuno dice «No grazie!». Tutti sorridono inteneriti dalla sana intraprendenza di questi scolaretti.

A Capocotta, al posto delle fragili telline, sulla sabbia, tra la bianca schiuma delle acque, rotolano avanti e indietro, spinti dalla corrente, i corpi abbandonati d'innumerevoli granchi morti; e gli ossi di seppia, sul bagnasciuga, sono incollati alla sabbia, come francobolli.
L’arenile, di origine ferrosa, le cui fasce cromatiche, dal grigio melange all‘ambrato, si stendono perpendicolarmente alla battigia, è cristallino come zucchero e morbido come un cuscino di piume. Mentre le conchiglie, qui, nella loro insostenibile leggerezza, vi si appoggiano delicatamente, i piedi dei viandanti affondano impietosamente fino alle caviglie, appesantendo il corpo di chi cammina.

Intanto tronchi di alberi rinsecchiti, di quando in quando rinfrescati dagli spruzzi delle onde, riposano stanchi sulla riva, sperando nell'alta marea per riprendere il largo, per approdare in un paese lontano e ripartire poi nuovamente all'insegna di una nuova avventura.
Qui, stranamente, non si sente l’insopportabile gracchiare dei gabbiani reali, che alteri, fermi sulla riva, dominano con lo sguardo il susseguirsi delle onde, pronti a scattare in volo alla vista di qualche "splash“, ma si vedono piccole lepri giocare a nascondino tra i cespugli.
 
Le sabbiose dune, attraversate da serpentine piastrellate che accompagnano gentilmente gli ospiti al bagnasciuga, sono tra le meglio conservate d'Italia, alte fino a dieci metri, proteggono, come le mura di un castello, che racchiude in sé, non so quale segreto, l’intimità dei bagnanti dalle macchine che sfrecciano sulla litoranea, donando al luogo un fascino esotico e misterioso. Visibili già in lontananza, le colline sabbiose sono interamente coperte da batuffoli di piante alofile, graminacee, splendidi ciuffi di un'allegra ginestra odorosa, morbidi cespugli di cisto villosa rosa e bianca, ma poche sono le persone che ne ammirano la natura rigogliosa. Quando arrivano qua, le ciurme cittadine, sognano solo il vento che scompiglia i capelli, un tuffo tra le fresche acque blu e niente più. 

Al lido di Ostia, le dune si sono estinte, la passeggiata a mare si affaccia direttamente sugli stabilimenti, ove le famiglie, in tutta tranquillità, si abbandonano al sole.
 
Al tramonto un ragazzo sulla mountain-bike gioca a sfidare l'andirivieni della risacca, mentre un gruppo di adolescenti con lunghe canne tenta di costruire le porte di un campo di calcetto; altri beffano la sorte tuffandosi con la tavola tra le onde, nonostante un cartello ne interdica la balneazione; poco più in là un gruppo di bambini rincorre un granchietto tra le rocce, pensando magari di portarselo a casa.

Al largo un panfilo, battente bandiera maltese, chiede ospitalità per la notte al porticciolo turistico, che, troppo affollato, è costretto a indirizzarlo altrove, ma che importa, a bordo si ride e si scherza, c’è la piscina e lo champagne scorre a fiumi nei bicchieri. Sulla costa, invece, non molto lontano, alcuni bambini giocano a palla, s’una strada grigia e polverosa, in mezzo a rifiuti e carcasse d‘auto abbandonate e, mentre, incantati, guardano sognanti il bianchissimo gigante allontanarsi, dalla finestra di una casa "sgaruppata", la mamma li chiama per la cena. È l‘ora di tornare alla realtà!
Il rosso della sera annuncia un’altra splendida giornata di sole, e sul pontile, un gruppo di studenti in gita, balla allegramente accompagnati dalla chitarra di un artista di strada: si festeggia il sapore di una vita, vuota di certezze e piena di speranze, che ancora tarda ad arrivare.















mercoledì 23 aprile 2014

Quando lo Sport diventa Arte

di Simona CASAGRANDE


Nel 1980 Moses Pendleton (campione di sci di fondo) e Alison Chase fondano i Momix Dance Theatre. Amatissimi in Italia, i Momix con le loro formazioni e le loro numerose coreografie, sono regolarmente presenti nei nostri cartelloni teatrali. Illusionisti del corpo, praticano uno stile di danza ginnico-atletico, basato su giochi plastici, per cui traggono volentieri ispirazione dalla natura con le sue forme fantastiche e mutevoli, e prediligono i toni ironici, mirando anzitutto all'evasione e al divertimento intelligente. Sono i portabandiera della formula eclettica dello “sport teatrale”, pieno di ritmo e di trovate sorprendenti.

Nel 1995 Giulia Staccioli, sulla scia dei Momix, fonda i Kataklò, compagnia internazionalmente applaudita per le qualità acrobatiche combinate con quelle teatrali. Infatti, la coreografa, dopo i suoi successi olimpici nella ginnastica ritmica si trasferisce a New York ove studia agli Alvin Ailey Studios, ed affina, poi, le sue doti nella ormai famosa compagnia americana di Moses Pendleton. In seguito, la passione e la predisposizione all’insegnamento, la portano allo sviluppo di un metodo personale di formazione che la guida anche nella creazione dei Kataklò.

Infine, la ex ginnasta, ad ottobre di quest’anno, istituisce, a Milano, anche l’accademia Kataklò, creata in sinergia con Accademia Susanna Beltrami: una scuola di formazione professionale che si basa sullo studio di danza, teatro e materie atletiche con l’obbiettivo di costruire la figura del danzatore acrobata come professionista completo preparato e qualificato.

Dopo lo strepitoso successo dello scorso anno, con “Play”, gli Atletic Dance Theatre diretti da Giulia Staccioli, il 17 dicembre 2010, sono tornati al Palalassio, con “Love Machine”.

Qui si racconta di una terra misteriosa, di un paesaggio che affascina, di un panorama che sembra essere senza fine in una dimensione senza tempo: un luogo perfetto per le avventure di due speleonauti in cerca di nuove scoperte e di nuove realtà. La fioca luce delle torce permette di cogliere solo alcuni tratti del luogo in cui si sono inoltrati.
Tutto si svolge nell’assoluta penombra, i corpi dei due esploratori, che si calano dall’alto e s’intrecciano l’uno con l’altro, s’intravedono appena. Temerari ed al contempo impacciati, i curiosi pionieri perlustrano lo spazio circostante desiderosi di svelare ogni più intimo segreto, scoprendo così che nell’oscurità si celano oggetti inconsueti: strutture con il piano superiore inclinato, involucri inerti, strani spuntoni, ostili e sinistri.
Affrontano la pendenza delle strutture e si accorgono che in ognuna di esse vive un corpo in carne ed ossa che cammina, pensa, lotta ed ama. Un corpo-macchina che rappresenta il motore della materia, la sua anima che ha voglia di vivere, di aprirsi al desiderio d’amore, divenendo così la metafora di tutto ciò che è passione e desiderio inconscio. Così accade che allo stesso modo in cui l’anima di un essere umano palpita e da vita alla materia, ognuno di quei corpi da e prende vita dalla macchina cui è indissolubilmente legato. In questo nuovo mondo non vi sono regole conosciute, ne il concetto di dritto e rovescio: agli occhi dei due pionieri, forme e pensieri appaiono ribaltati in un perfetto equilibrio.

A poco a poco i viaggiatori si lasciano coinvolgere dalla giocosa vivacità e dalla contagiosa follia d’amore di questo popolo che, attraverso la passione, la curiosità e l’intuizione, ha compiuto un percorso ricco e progressivo fino a creare una nuova dimensione in cui tutto è armonia.

Il rapporto uomo macchina è incentrato s’una visione profondamente ottimistica del mondo. È proprio l’idea dell’amore che genera il mito dell’unione; grazie alla conoscenza reciproca, la diversità diviene normalità. Come agli occhi di Leonardo da Vinci il conosciuto genera esperienza, così gli esploratori imparano a vedere ciò che li circonda da un altro punto di vista, da un’altra angolazione.


In mezzo alle originalissime musiche di Sabba D.J., spicca, proprio durante la danza dell’amore, l’eccezionale e coinvolgente brano barocco, del tedesco Johann Pachelbel, “Canone in D”: perfettamente indovinato.

A differenza di “Play”, però, l’interpretazione di “Love Machines” ha esaltato inopportunamente grandiosi effetti scenici e magici giochi di luce, mettendo in ombra le eccezionali doti atletiche dei danzatori ma, per gli spettatori, che non avevano goduto della straordinarietà dello spettacolo del 22 gennaio, sono stati settantacinque minuti di esibizione fantastica; mentre, invece, sono rimasti delusi coloro che, presenti alla manifestazione d’inizio anno, si aspettavano di vedere le eccellenti abilità acrobatiche esibite nella rappresentazione precedente.

Il teatro era, nonostante l’inconsueta ondata di freddo, comunque gremito di pubblico venuto anche da lontano, tanto che gli organizzatori hanno dovuto aggiungere numerose file di posti in platea ed il pubblico generoso, come sempre, non ha lesinato gli applausi ai fenomenali artisti, che tutti speriamo di poter nuovamente ammirare nelle loro strabilianti evoluzioni.



 

Pubblicato da GenovaZena a febbraio 2011


venerdì 18 aprile 2014

Una Vita tra i Tessuti

di  Simona CASAGRANDE


Stand numero 12. Soffitto di stoffe, pareti di stoffe, corridoi di stoffe. Ci sono velluto, chiffon, organza, seta, cotone, taffetà, georgette, jacquard, raso, broccato e tutti in talmente tanti colori che nemmeno l’arcobaleno li potrebbe contenere. E poi ricami, paillettes, perle… un paradiso per gli occhi di ogni donna che ama cucire.


In un angolo, dietro agli scatoloni ancora confezionati, perfettamente mimetizzata tra le pezze, giace una coperta verde mela dalla quale esce una lunga chioma di capelli neri, delicatamente adagiata sul pavimento.

Sandeep, ha lavorato tutta la notte e ora sta dormendo; è qui solo da due mesi, ancora non conosce l’italiano, ma dal primo giorno lavora nello stand con suo fratello.
Non abita lontano da dove lavora, ma quando non comprendi la lingua e la cultura del posto dove vivi, tutto è lontano. Ogni mattina percorre la stessa strada, gli stessi portici, gli stessi giardini e incontra sempre le stesse persone, ma troppo diverse da lei: chi corre al lavoro, chi accompagna i bambini a scuola, chi attrezza la bancarella, chi apparecchia un tavolino per leggere le carte, chi si aggira curiosando, chi pratica tai chi chuan, chi improvvisa un taglio di capelli dentro una fontana, chi attende, chi sonnecchia sul prato. Ma anche le facce che potrebbero esserle famigliari, non le capisce: sente tanti suoni differenti che non riesce ad afferrare e sono peggio del silenzio perché vorrebbe, ma non li può decifrare.

In India ci sono ben 30 diverse lingue e 2000 dialetti. Sandeep, è nata e cresciuta in un paesino del Punjab, un minuscolo stato del nord, dove si parla Punjabi.

Fin da bambina con la nonna tesseva lana, cotone, seta; crescendo ha imparato le tinture e poi a ricamare e cucire. La nonna le raccontava spesso di un uomo piccolo e minuto, vissuto molto tempo fa, Gandhi, che ripeteva continuamente che il telaio sarebbe stato la salvezza dell’India, perché l’antichissimo artigianato tessile indiano alimenta da sempre il commercio con l’estero. Per questo moltissime famiglie oggi ne possiedono uno e al centro della bandiera nazionale vi è un charka, la struttura su cui si stende la matassa di cotone da filare, simbolo dell’autonomia.
Ora Sandeep non indossa più i suoi coloratissimi saree, ma dei semplici jeans e una maglietta e guarda gli abiti del suo paese, in vendita nelle vetrine di piazza Vittorio, con grande nostalgia. Ogni giorno vede donne africane, magrebine e indiane comprare splendidi tessuti, per confezionarsi le vesti, che vorrebbe poter indossare anche lei, ma suo fratello non approva. - Le ragazze italiane non indossano certi vestiti! - Anche Gagan, se pur di religione sikh, da quando è arrivato, quattro anni fa, non porta più il turbante e ha tagliato barba e capelli: è meglio non apparire!
Sul super tecnologico cellulare, però, li accompagna un’immagine del Gurudwara (un tempio tutto d’oro), un ritratto del Guru, alcuni inni del Granth, una figura del Khanda e una foto dei nipotini vestiti di abiti tradizionali sikh. E mai si separano da Kara, il braccialetto di ferro, simbolo della loro religione.

Allo stand numero 12, Gagan si occupa delle clienti, degli ordini e dei conti: molte habitué contrattano il prezzo delle stoffe, portano via la merce e pagheranno quando non si sa, la lista dei debitori è lunga. Sandeep riordina, pulisce e la notte confeziona saree, abiti per la danza del ventre, ma più di altri lehenga (l'abito nuziale femminile) e shewani (quello maschile), per i giovani che, cresciuti qui, torneranno al loro paese per sposarsi.
Anche Gagan e sua sorella torneranno presto a casa per maritarsi, ma non con indiani cresciuti in Italia, anche se della loro stessa religione, sono troppo europeizzati.
Sandeep ha 26 anni e quando cuce i lehenga per le altre ragazze, sogna il giorno delle sue nozze e immagina già come sarà la sua veste, rigorosamente rosso-bordeaux e oro. Tra poco più di un anno sposerà un uomo che ancora non conosce, ma è già felice.

domenica 6 aprile 2014

Viaggio nel Profondo Nord

di Simona CASAGRANDE

Le vacanze estive si avvicinano e scegliere una località poco gettonata ove non trovare la folla diventa sempre più difficile. Meglio programmarsi per tempo!

L’Islanda, un’isola sperduta dell’Atlantico di soli 280.000 abitanti, appena sotto il Circolo Polare Artico, non è considerata una meta turistica particolarmente ambita, ma il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo 2011 ha stabilito, essere il Paese in cui si vive meglio. Il reddito pro capite è tra i più elevati d’Europa ed anche il livello culturale è altissimo, quasi tutti sono laureati e l’analfabetismo è inesistente.

Non solo, è anche quello che l’indice di Sostenibilità Ambientale 2010, ha messo al primo posto, grazie alle sue politiche ecologiche e di salute pubblica (il sistema sanitario è considerato tra i migliori al mondo), nonché per il suo controllo delle emissioni di gas ad effetto serra. Questo perché l'energia, prodotta qui, proviene quasi esclusivamente (93,5%) da fonti rinnovabili, infatti il Parlamento islandese nel 1998 ha deciso di eliminare tutti i combustibili fossili dall'isola ed utilizzare solo mezzi di trasporto ad idrogeno, prefiggendosi, entro il 2050, di riuscire a raggiungere il 100%.
Un paese che, nella primavera 2011, a suon di pentole e coperchi, ha fatto dimettere il governo e ha riscritto la costituzione: una rivoluzione di cui pochi hanno parlato.

Un luogo, che già solo per queste premesse, merita di essere visitato.

Con poche ore di volo, si raggiunge la capitale.
A Reykjavik, in cui risiede quasi il 40% della popolazione, oltre ai vari musei e pinacoteche si trova anche, unico al mondo, il Museo Fallologico, ove sono esposti gli organi riproduttivi di tutti gli animali presenti sull'isola.


Il Paese ha un’unica via di comunicazione fatta ad anello e asfaltata solo a tratti (Ring Road). Parallelamente alla strada, corre la via per i cavalli, poiché qua, anche i più piccini, cavalcano per le praterie per raggiungere la scuola, spesso lontana da casa anche molti chilometri. La ferrovia è totalmente assente.

Con un 4x4 si parte, così, dal Parco Nazionale di Thingvellir dove ebbe sede il primo parlamento al mondo, ma è anche il luogo ove la frattura tra la placca nord-americana e quella europea è maggiormente apprezzabile. Qui si trova una sottile e lunga fetta di roccia, circondata da immense praterie, che, altera, si erge verso il cielo, come la cresta di un vecchio drago addormentato: uno spettacolo da non perdere! Scendendo il sentiero, solo il rumore dei passi, rompe un silenzio quasi assordante, mentre le scarpe affondano nella ghiaia nera: nessun uccellino cinguettante, né grilli, né cicale, niente alberi, niente cespugli, solo erba e un po’ di muschio.
Si prosegue verso la zona dei geyser per assistere alle bizzarre eruzioni d’acqua bollente.
Ancora pochi chilometri e dietro un’alta montagna, si apre piano, piano, annunciandone, con un gran frastuono, l’immensa potenza, un grandioso spettacolo della natura: è la cascata d’oro che non potrete esimervi dal fotografare.


L’isola sembra quasi disabitata, niente auto, pochissime case, niente persone, tutto sembra sospeso nel tempo, e percorrendo gli sterminati altopiani costellati da valli verdeggianti, fiumi glaciali e vertiginose cascate, si respira un’incredibile profumo di libertà: le pecore, non sono chiuse in un recinto, pascolano sovrane da maggio a settembre; i cavalli scorrazzano tranquilli sui prati; le case tutt’intorno non hanno cancelli o muri a fare loro da cassaforte; ed ora il parlamento, ha approvato anche una legge che garantisce l'impunità a chiunque violi un segreto di stato o pubblichi informazioni riservate: militari, giudiziarie o societarie. Un Paese, privo di esercito, che ha fatto della libertà la sua bandiera.


Giunti ad Akureyri, non si può non dedicare un’intera giornata all’oceano, alla ricerca delle più grandi creature viventi, e, all’attraversamento del Circolo Polare Artico, il comandante vi farà omaggio di un certificato a testimonianza dell’evento.


Ripresa la Ring Road, appena usciti dalla città, ci s’immerge in un grande deserto di sabbia nera, vulcani, crateri e in lontananza sulle colline si vedono levarsi ovunque le lunghe colonne di vapore delle fumarole, uno spettacolo degno dell’inferno dantesco, ma poi, in fondo ad una valle, ecco, in tutto il suo splendore, la cascata degli dei con la sua mitica storia.


Si narra, infatti, che, nel X secolo, molti cittadini e diverse personalità islandesi, in seguito alle pressioni europee per la conversione al Cristianesimoabbracciarono la nuova fede, ma essendo gli abitanti dell'isola, in prevalenza pagani (adoravano, fra gli altri, Thor, Odino e Freyja), spesso ci furono scontri tra i sostenitori di una o dell’altra religione. Nell'anno 999, per scongiurare una guerra civile che pareva inevitabile, l'assemblea parlamentare nazionale decise che l'Islanda si sarebbe dovuta convertire interamente al Cristianesimo, anche se i seguaci della religione pagana vennero lasciati proseguire il loro culto in segreto. Così le statue degli dei e degli idoli furono pubblicamente gettate in una cascata dell'isola. Questa cascata da allora si chiama Godafoss, la cascata degli dei. Il primo vescovo islandese venne consacrato nel 1056. Ma ancora oggi, gli Asatruar, cioè il 5% della popolazione che ha mantenuto nei secoli la religione pagana, si ritrovano presso la cascata in occasione del solstizio d'estate per celebrare la festa della luce ed eseguono il rito contrario: dal basso della cascata lanciano in alto gli idoli quasi a volerli ripristinare al loro posto.

Sulla strada del ritorno, arrampicandosi sulle ripide scogliere, è possibile fare anche un po’ di birdwatching portando a casa splendide foto di uria e coccinelle di mare, e se avete fortuna, potete scorgere persino delle otarie addormentate s’un qualche scoglio sotto di voi.


È giunto il momento di lasciare questo paradiso per rientrare a casa, ma quando avrete bisogno di pace e tranquillità, troverete volentieri rifugio nei ricordi di quest’isola e magari deciderete di tornare un’altra volta per attraversarla a cavallo.





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sabato 16 marzo 2013

La Generosità Non ha Prezzo


di Simona CASAGRANDE
 
 
Varcando oggi la soglia delle nostre chiese il salto indietro nei secoli è immediato.

In ogni angolo si scorgono segni incontrovertibili del passato: tele, affreschi, mosaici, statue, stucchi, marmi, intarsi lignei, vetrate… quì la storia ed ancor più l’arte invadono con  indiscutibile veemenza ogni cellula del nostro essere facendoci sognare un mondo fatto di cose semplici, naturali, di sano sudore, fatica, sacrifici, stenti…. Un passato di grande devozione religiosa, un passato che i turisti di ogni dove vengono ad ammirare ogni giorno… Ma mostrando loro i gioielli di questi luoghi, ne dimentichiamo spesso uno estremamente  importante: l’organo. Uno strumento che nasce nella chiesa stessa ed ad ognuna adeguato, che cresce ed invecchia in essa e con essa, mostrandosi con infinita umiltà offuscato dall’abbagliante luce delle altre opere d’arte.

Ma come un bruco crea il bozzolo tutt’intorno a sé prima di diventar farfalla, così l’organo nel momento in cui, dalla mano sapiente si sente accarezzato, avvolge la chiesa con il suo suono armonioso lasciando spiccare il volo ad ineguagliabili melodie che con l’ambiente diventano magia e catturano per sempre il cuore di chi le ascolta. Uno strumento dolce e potente, indispensabile, che non esiste al di fuori della chiesa perché di questa ne è la voce…
Alcuni organi del nostro territorio risalgono persino agli inizi del ‘700, e pur godendo di un pregio inestimabile, pochissimi li stimano ed ancor meno sono coloro che ne conoscono il reale valore. Però, come le opere d’arte, godendo ormai di una certa età, anche questi necessitano di un restauro. Spesso le canne collassano su se stesse, quando addirittura non hanno subito mozzature o trafugazioni, le impellettature dei somieri sono talmente rovinate che necessitano un pronto intervento, le parti in legno sono consumate al punto che richiedono un’immediata ristrutturazione,  i tasti in osso ed ebano, usurati, esigono una rapida sostituzione, inoltre durante le esecuzioni i fili di ferro s’intrecciano tra di loro ed i tasti s’incantano creando non pochi limiti all’organista.

L’organo di San Bernardo in Valle di Savona è stato restaurato di recente ed il suo suono risulta ora più armonico, più pulito, più suggestivo e decisamente più potente; quello nella Cappella Sistina è in fase di ultimazione, ma nel Ponente Ligure sono centinaia gli esemplari di scuola ligure, piemontese e lombarda, che richiedono restauri urgenti ed immediati, ma purtroppo, come generalmente succede, mancano i fondi.

Il patrimonio di questi gioielli è inestimabile, e, per il valore storico, artistico, culturale nonché pecuniario che rappresentano, dovrebbero smuovere autorità, media e sponsor per il recupero ed il restauro, ma così purtroppo non è, e come al solito l’incombenza spetta al buon cuore delle persone, sensibili alla conservazione  della memoria della NOSTRA bella terra, importantissima oltretutto anche dal punto di vista turistico.

Per questo l’organista, Giorgio REVELLI, di fama internazionale, si è generosamente prestato per la realizzazione di un CD, intitolato proprio “Organi di Ponente”, il cui ricavato verrà interamente devoluto a scopo benefico per la salvaguardia di questi tesori del NOSTRO territorio.

Lo strumento scelto per la registrazione, è quello dell’ottocentesca ditta fratelli Lingiardi di Pavia (1863), che si trova nella chiesa di San Tommaso a Dolcedo (IM). Il programma proposto suggerisce all’ascoltatore molti dei colori dell’organo nelle sue condizioni attuali  attraverso 450 anni di letteratura musicale: un viaggio dalle cinquecentesche danze di Attaignant fino alle militaresche composizioni dell’ottocento ticinese attraverso le musiche di Byrd, Martinenghi, De Sermisy, Gabrieli, Ribassa, Foucquet, Cimarosa, Rinck, Lemaigre, Lefebure-Wely e Martinenghi. Una scelta di esecuzioni decisamente esilaranti piene di gioia, brio, freschezza e dolcezza, come solo un luminare, quale il maestro Revelli, avrebbe potuto scegliere.  Un CD che vale decisamente la pena di acquistare per l’impegno e l’importanza del gesto, ma anche per godere di sonorità ineguagliabili ed indelebili che valorizzano non solo la nostra biblioteca musicale, ma soprattutto la nostra ricchezza interiore.

Per l’acquisto del CD tel. 347.2927273
 
 
 
 
Pubblicato a giugno 2007