di Simona CASAGRANDE
Spesso mi è capitato di vedere foto di Alassio
dell’inizio del sec. XX e mi hanno affascinato le radicali trasformazioni che
ha subito nel tempo: rispetto ad oggi mi sembra del tutto irriconoscibile. Il
centro cittadino, dove vi sono strade, case su case, allora non era altro che
una verde pianura coltivata ad ortaggi con alberi di frutta…. E mi viene da
sorridere pensando come nel 1907, durante la prima edizione della
Milano-Sanremo, i ciclisti partecipanti dovettero transitare s’una stretta
strada lastricata, l’attuale budello, perché non esistevano altre strade.
Che bella l’Alassio dei nostri nonni e bisnonni… e
non mi riferisco alla leggenda di Adelasia ed Aleramo, che la nonna ci
raccontava, come fosse una favola dei fratelli Grimm, accompagnandoci nelle
braccia di Morfeo… ma a quell’Alassio che noi distrattamente vediamo, ma non
guardiamo, perché viviamo la vita ascoltando il ticchettio dell’orologio e non
ci soffermiamo ad ammirare le bellezze che ci circondano, tanto famigliari, ma
incredibilmente sconosciute.
Ed è così che nel tepore dell’alba, quando il sole
fa capolino all’orizzonte, dietro all’isola Gallinara, e mentre tutti dormono
ancora, passeggio, sguazzando con i
piedi nell’acqua del mare ancora fredda, ed incontro, in borgo Barusso, posta
s’uno scoglio, come a volermi aprire la porta, invitandomi ad una visita del
centro storico, ancora deserto, la chiesa dedicata alla mamma di Maria,
Sant’Anna.
Accetto l’invito e sognando un mondo antico,
percorro via Vittorio Veneto, una parte del cosiddetto “budello”, costeggiata
da eleganti negozietti, di cui noi, passando, scrutiamo sempre le colorate
vetrine, interessati ai capi di alta moda che ci abbagliano legandoci al
presente o proiettandoci nel futuro, ma che c’impediscono d’ammirare il passato
di questi luoghi.
Passeggiando, sul lato destro, trovo subito tre
grandi portoni incorniciati da neri portali in ardesia scolpiti: la chiesa
della Carità. Fu eretta insieme all’Hospitium
Peregrinorum tra il 1307 ed il
1310 da armatori alassini, in seguito
alla mancanza di alloggi durante il passaggio delle folle di pellegrini,
diretti a Roma per il I Giubileo,
indetto da Bonifacio VIII nel 1300. Nel 1315 vi sostò anche San Rocco di
Montpellier. Allora L’Hospitium aveva la capacità di ventisei posti letto, una
cucina e l’annessa chiesa. Con il passare degli anni venne ampliato e divenne
il primo ospedale civico. Oggi è un rinomato albergo.
Cerco così d’immaginare i pellegrini, nelle loro
umili vesti, attraversare questa lunga striscia di piccole case, al massimo due
piani, modeste, senza pretese, affiancate l’una dall’altra, lungo la costa,
fino a formare una lunga via racchiusa tra le due porte cittadine ed il resto
campi coltivati… mi sembra quasi di
poterne vedere i colori, sentire gli odori, i rumori, i silenzi…
Così camminando, ancora sognante, incontro a destra,
quasi ad angolo con p.zza Matteotti, prima della farmacia, un grande portone in
ferro di colore verde scuro, sovrastato da una mezza luna in ferro battuto:
palazzo Scofferi che nel periodo napoleonico, fu sede del municipio.
Guardando questa strada così lastricata, sento
ancora rimbombare, tra i muri delle case, lo scalpitio degli zoccoli ferrati
dei cavalli, allora unici mezzi di trasporto, e cerco d’immaginare le nostre
bisnonne, ancora giovin donzelle, passeggiare spettegolando nei loro abiti semplici,
lunghi e pesanti, dalle stoffe ruvide e pungenti, dai tagli severi, dai colori
scuri e tristi….
Camminando incontro diversi portoni di altri nobili
palazzi, tra cui un altro palazzo Scofferi, di un altro ramo della famiglia e
Palazzo Bonfante.
I nobili qui erano di matrice imprenditoriale,
nobilitati, non per nascita, ma per servigi e benemerenze acquisite, e non
gareggiavano tra loro, per cui costruirono le loro dimore di modeste
proporzioni a poca distanza l’una dall’altra.
Ed ecco del sec. XVI
e XVIII, il palazzo dei cittadini più illustri: i marchesi Ferrero
Gubernatis di Ventimiglia. Le finestre contornate di colore giallo sullo sfondo
mattone della facciata, con un portone talmente maestoso che mi chiedo come si
possa passargli davanti senza che venga notato, eppure sono pochi coloro,
alassini e non, che restano catturati da tanto splendore. I battenti di ferro,
sul portone centrale, fuoriescono dalla testa di Bacco ed i portali in marmo
bianco, hanno altorilievi con frutta, fiori e melograni a fargli da cornice; al
centro, in alto, un grande stemma in marmo rappresentante uno scudo su fondo oro
con tre righe nere; sui lati due altorilievi in marmo bianco con due grandi
vasi pieni di fiori e frutta.
Non resisto alla tentazione di esplorare
ulteriormente il palazzo e corro incuriosita sul retro dove, in via Cavour,
trovo ad attendermi un fantastico giardino curato con l’amore che si addice
solo ad uno scrupoloso giardiniere: pieno di aiuole con fiori di ogni specie e
colore, e poi abeti, palme e cipressi…
Immersa nell’intenso colore giallo di una rosa
ancora socchiusa, chiudo gli occhi e subito sento le giovani voci dei figli dei
marchesi di allora che, giocando spensierati, corrono tra le piante, celandosi
tra i cespugli con i loro elegantissimi abiti in pizzo e merletti, soffice
velluto e sottile organza; immagino quello spettacolare giardino arrivare ai
piedi della collina, e non soffocato, come ora, dagli alti e moderni palazzi
che lo circondano, ma molto più vivace, più allegro, più libero, più luminoso….
Giunta all’angolo di via Cavour con via Dante,
camminando con il naso in su, ancora assorta, scorgo un bel palazzo bianco, con
ringhiere e sottobalconi in ferro battuto nero, in stile liberty, quello che fu
lo storico “Caffè Roma” raduno del jetset internazionale negli anni ’50.
“Quel muricciolo anonimo così spoglio, semplice
contenimento al terriccio dei giardini pubblici, è indegno della vivacità dei
passanti e della sensibilità degli ospiti seduti ai tavolini di un caffè così
elegante”, disse un giorno Mario Berrino, il titolare del noto locale, ad
Hemingway, mentre questi firmava il “libro dei ricordi”. Ma proprio in
quell’istante gli venne l’idea di trasferire gli autografi, di tutti quei
personaggi illustri, che aveva raccolto negli anni, su piastrelle di ceramica
colorata, di varie forme e dimensioni, e rivestirne quel “Muretto” così
spoglio, cosicché tutti potessero contemplarli.
Dietro al Muretto, nascosto dagli enormi alberi del
giardino, dal 1904, il Palazzo del Comune che dall’esterno sembra quasi
Montecitorio, spostato da piazza Airaldi e Durante (ora sede della posta
centrale), ha preso il posto del convento delle Clarisse che sorgeva qui dal
1603, poi spostatesi in località Belvedere.
Mi siedo qui s’una panchina nascosta fra i cespugli
ad ammirare il secolare abete che altero e silenzioso, come un vecchio saggio,
domina le coloratissime aiuole dei giardini comunali e penso a quante cose, a
quanti cambiamenti ed innumerevoli trasformazioni abbia assistito nel
trascorrere della sua lunga vita: prima le verdi distese incontaminate, poi i
campi di ortaggi, gli alberi da frutta, poi ancora la strada sterrata, i
cavalli, le carrozze, le rumorose e puzzolenti automobili, il semaforo
intelligente ed infine la rotonda…
Ma ecco un lungo, fastidioso ed assordante suono
stridulo, come di ferraglia, irrompere la pace del mattino: è l’intercity delle
7.30 per Genova. Alzo lo sguardo dietro l’abete ed intravedo la “nuova”
stazione ferroviaria, costruita nel 1914, s’un terreno che fu della famiglia
Hanbury, la quale lo concesse gratuitamente a condizione che tutti i treni passeggeri
in transito da Alassio, vi si fermassero. E rivedo, le romantiche carrozze, con
le caratteristiche cappelline estive o i pennacchi festosi sul capo dei cavalli
che tutte ordinatamente in fila, attendevano i turisti che comodamente aprivano
le vacanze alassine con una romantica passeggiata per poche lire.
Attraversata piazza Partigiani, verso levante,
giungo ad una maestosa costruzione, in stile liberty, da poco restaurata: il
Grand Hotel. Del 1871, era allora l’albergo più elegante del ponente ligure,
solo una decina di anni più vecchio dell’Hotel Mediterranee, era affiancato
anche da un casinò che ha lasciato il posto alla grande piazza.
Furono gli anni in cui i medici cominciarono a
consigliare la balneazione nelle acque marine, quale metodo naturale per la
guarigione di diverse malattie. Così le spiagge cominciarono timidamente ad animarsi
di ultra pudichi bagnanti e proprio qui davanti sorse qualche anno dopo, il
primo stabilimento balneare della cittadina, “L’Anfitrite”, affiancate in breve
tempo dalle cabine del collegio salesiano. Pochi sanno che a questo
proposito, nel 1906, le autorità comunali, emisero un’ordinanza, secondo la
quale era severamente proibito percorrere o intrattenersi per le vie del paese
in accappatoio, era solo tollerato l’andare con tale abbigliamento
dall’abitazione al mare: molto simile ad un’attuale ordinanza!
Questi furono anche gli anni in cui i primi precursori
del nostro turismo, gli inglesi, scelsero questo luogo per il loro soggiorno
invernale, coronandone le alture di eleganti ville circondate da incantevoli
parchi e verdi giardini: con una loro biblioteca, una farmacia, il teatro, i
campi da tennis, la chiesa anglicana… eravamo quasi una loro colonia!
Tra questi il pittore Richard
West che, vivendo a Villa Bianca (l’attuale hotel Beau Rivage), proprio di
fronte al mare, stravagantemente faceva il bagno ogni mattina, in ogni stagione
dell’anno. Alla Memorial Gallery, una delle pinacoteche comunali, è possibile
riconoscere le caratteristiche della sua arte, in un’ottantina di quadri, che
la figlia Katleen, nel 1963, alla morte del padre, ha donato alla città.
Passato il Grand Hotel, proseguendo sul lungo mare,
incontro il possente torrione di Borgo Coscia, del XVI sec., eretto dalla
Repubblica di Genova per la difesa dei paesi costieri contro i saraceni.
E proprio in questo angolo di storia, a conclusione
della mia passeggiata mattutina, mi siedo sugli scogli grigi, tra i bianchi
gabbiani ed ascoltando in silenzio il fruscio del mare, l’infrangersi delle
onde ed il gorgoglio delle pietre, non posso non osservare lo splendido golfo,
illuminato dal sole ormai alto: da un lato Capo Mele e dall’altro Capo Santa
Croce che sembrano volersi allungare in un abbraccio… su nel cielo qui e là dei
parapendii che avvolti da sfumature di mille colori si lasciano librare nell’aria…
li guardo e penso a questi luoghi… il passato, il presente ed il futuro… penso
ad Icarus, al suo sogno infinito…