sabato 28 gennaio 2012

Chi Osa, Vola!

di Simona CASAGRANDE


Negli anni ’30, mentre Hitler e Mussolini fanno discorsi sempre più allarmanti su razze superiori ed inferiori, un giovane studente norvegese, convinto che tutte le razze del mondo abbiano avuto origine dallo stesso ceppo, rimane profondamente indignato per tali affermazioni. Vorrebbe poter dimostrare al mondo la sua tesi, ma gli mancano le prove scientifiche per cui interroga il mondo accademico, chiede sostegno, aiuto, ma trova ogni porta chiusa. Così, “remando contro” lo scetticismo dell’opinione pubblica, decide di dimostrare di persona, mettendo a rischio la propria vita, la validità delle sue affermazioni.
Dopo il faticoso reperimento del legname nella foresta equatoriale, riesce a varare una barca di balsa con scafo e vele di canna attorcigliata, una perfetta copia delle antiche zattere peruviane, che chiama “Kon Tiki”, figlio del sole. Perciò, per dimostrare che, nella notte dei tempi, alcune popolazioni sudamericane, arrivarono in Polinesia, il 27 aprile 1947, con coraggio e determinazione, in compagnia di cinque amici, parte da Callao (Perù), affidandosi ai venti e sfidando le impetuose onde del Pacifico.

I giorni si susseguono, l’oceano mostra il suo volto tempestoso, le onde scuotono la zattera vacillante, gli squali non mancano, ma le misurazioni ed annotazioni scientifiche continuano imperterrite finché il “Kon Tiki” si arena sulla barriera corallina dell’atollo Ravoia. Così, centouno giorni di navigazione e 4.300 miglia nautiche (8.000 km) fanno di tale spedizione un successo: questa è infatti la dimostrazione concreta di una teoria rivoluzionaria. Il giovane Thor scrive anche un libro documentando il proprio viaggio e dimostrando che i primi colonizzatori della Polinesia vennero dal Perù intorno al 500 d.C.. Ma, nonostante il testo venga tradotto in decine di lingue ed il filmato sul viaggio ottenga nel 1951 l’Oscar per miglior documentario, il mondo accademico, continua a disconoscere il valore scientifico dell’impresa.

Nel 1969, a difesa della sua teoria, vuole dimostrare che gli antichi egizi, con navi di papiro erano in grado di attraversare l’Atlantico. Così nel 1970, sfidando nuovamente l’oceano, da Safi (Marocco) arriva alle Barbados. Nel 1977, poi con una barca di giunchi, tagliati nel mese di agosto per aumentare la galleggiabilità, naviga dall’Iraq al Golfo Persico e all’Oceano Indiano.
Tutto ciò a dimostrare che era possibile per imbarcazioni preistoriche navigare dall’Asia all’Africa, dall’Africa all’America e dall’America alla Polinesia anche nel corso della vita di un uomo. Istituzioni di ogni parte del mondo gli conferirono lauree, titolo accademici, medaglie al valore scientifico… il vento era cambiato!

Un grande antropologo, ma soprattutto una grande persona, che crede nell’unità del genere umano e lavora attivamente nell’intento di colmare le distanze fra nazioni e popoli di razza, religione e politica diverse.

Nel 1958, innamoratosi di Laigueglia, tra un’impresa e l’altra, Thor Heyerdhal, restaura il borgo medievale di Colla Micheri, ove vive fino ad 87 anni.
Il 18 aprile 2002 giunge all’epilogo un cammino cominciato al chiaro di luna, quando un vecchio polinesiano racconta, ad un giovane capace di ascoltare, le leggende e le storie del suo popolo.
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lunedì 23 gennaio 2012

L'Arcobaleno della Vita

di Simona CASAGRANDE

«Massaccio?» chiede, ai passanti, una ragazza cinese, vestita di tutto punto, camminando sul bagnasciuga con le ciabatte tra le mani; mentre una sua collega, con l’olio di canfora, massaggia tranquillamente, senza inibizioni, le parti intime di un uomo sdraiato nudo a gambe larghe, tra i cespugli delle dune. È la spiaggia naturista di Capocotta, popolata da una fauna meno stravagante di quel che si pensi: il maschio, alla vista dei passanti, si alza in piedi facendo la ruota come un gallo cedrone, la femmina, invece, come una timida cerbiatta, si ritrae girandosi prona, quasi a volersi celare.

In acqua, poco lontano dalla riva, un uomo di colore, incurante dello spettacolo, tira uno strano strumento fatto di una sottile maglia di ferro terminante con grandi e lunghi rami. Setaccia, a gran fatica, il fondale, osteggiato dalla forza delle onde, per raccogliere delle piccolissime conchiglie grigiastre, le telline: un prelibatissimo mollusco che nel pomeriggio venderà ai ristoratori della zona. Non sa, però, che in Liguria, ogni mattina, all’alba, là dove l’onda si allunga per abbracciare la spiaggia, centinaia e centinaia di telline, spinte dall’alta marea, formano una sottile striscia bianca. Prima che il setaccio dei bagnini ripulisca il bagnasciuga, i bambini le raccolgono velocemente con i secchielli, per addobbare i castelli di sabbia, per farne, con grande ingegno e maestria, collane, braccialetti, cavigliere e anelli che nel pomeriggio distribuiranno ai turisti. «Solo due euro signora, è tutto artigianale, fatto da me!». E a loro nessuno dice «No grazie!». Tutti sorridono inteneriti dalla sana intraprendenza di questi scolaretti.








A Capocotta, al posto delle fragili telline, sulla sabbia, tra la bianca schiuma delle acque, rotolano avanti e indietro, spinti dalla corrente, i corpi abbandonati d'innumerevoli granchi morti; e gli ossi di seppia, sul bagnasciuga, sono incollati alla sabbia, come francobolli.
L’arenile, di origine ferrosa, le cui fasce cromatiche, dal grigio melange all‘ambrato, si stendono perpendicolarmente alla battigia, è cristallino come zucchero e morbido come un cuscino di piume. Mentre le conchiglie, qui, nella loro insostenibile leggerezza, vi si appoggiano delicatamente, i piedi dei viandanti affondano impietosamente fino alle caviglie, appesantendo il corpo di chi cammina.

 


Intanto tronchi di alberi rinsecchiti, di quando in quando rinfrescati dagli spruzzi delle onde, riposano stanchi sulla riva, sperando nell'alta marea per riprendere il largo, per approdare in un paese lontano e ripartire poi nuovamente all'insegna di una nuova avventura.
Qui, stranamente, non si sente l’insopportabile gracchiare dei gabbiani reali, che alteri, fermi sulla riva, dominano con lo sguardo il susseguirsi delle onde, pronti a scattare in volo alla vista di qualche "splash“, ma si vedono piccole lepri giocare a nascondino tra i cespugli.


Le sabbiose dune, attraversate da serpentine piastrellate che accompagnano gentilmente gli ospiti al bagnasciuga, sono tra le meglio conservate d'Italia, alte fino a dieci metri, proteggono, come le mura di un castello, che racchiude in sé, non so quale segreto, l’intimità dei bagnanti dalle macchine che sfrecciano sulla litoranea, donando al luogo un fascino esotico e misterioso. Visibili già in lontananza, le colline sabbiose sono interamente coperte da batuffoli di piante alofile, graminacee, splendidi ciuffi di un'allegra ginestra odorosa, morbidi cespugli di cisto villosa rosa e bianca, ma poche sono le persone che ne ammirano la natura rigogliosa. Quando arrivano qua, le ciurme cittadine, sognano solo il vento che scompiglia i capelli, un tuffo tra le fresche acque blu e niente più.
Al lido di Ostia, le dune si sono estinte, la passeggiata a mare si affaccia direttamente sugli stabilimenti, ove le famiglie, in tutta tranquillità, si abbandonano al sole.



Al tramonto un ragazzo sulla mountain-bike gioca a sfidare l'andirivieni della risacca, mentre un gruppo di adolescenti con lunghe canne tenta di costruire le porte di un campo di calcetto; altri beffano la sorte tuffandosi con la tavola tra le onde, nonostante un cartello ne interdica la balneazione; poco più in là un gruppo di bambini rincorre un granchietto tra le rocce, pensando magari di portarselo a casa.


Al largo un panfilo, battente bandiera maltese, chiede ospitalità per la notte al porticciolo turistico, che, troppo affollato, è costretto a indirizzarlo altrove, ma che importa, a bordo si ride e si scherza, c’è la piscina e lo champagne scorre a fiumi nei bicchieri. Sulla costa, invece, non molto lontano, alcuni bambini giocano a palla, s’una strada grigia e polverosa, in mezzo a rifiuti e carcasse d‘auto abbandonate e, mentre, incantati, guardano sognanti il bianchissimo gigante allontanarsi, dalla finestra di una casa "sgaruppata", la mamma li chiama per la cena. È l‘ora di tornare alla realtà!
Il rosso della sera annuncia un’altra splendida giornata di sole, e sul pontile, un gruppo di studenti in gita, balla allegramente accompagnati dalla chitarra di un artista di strada: si festeggia il sapore di una vita, vuota di certezze e piena di speranze, che ancora tarda ad arrivare.


















mercoledì 11 gennaio 2012

Il mio Amico Speciale


di Simona CASAGRANDE


 
Oggi è il mio sesto compleanno. La mamma stamani mi ha detto: - Lara, da oggi molte cose cambieranno, ora sei grande! –
Abbiamo fatto una bella torta con il cioccolato e nel pomeriggio sono venuti i vicini e i parenti che abitano lontano, ma mio padre non c’era: lui lavora sempre e quando non è in officina, lo trovi al bar del paese. Tutti mi hanno fatto un regalo: i miei genitori, una cartella in cartone rosso legata con due fibbie, come quelle della cintura di papà. La nonna Elsa mi ha ricamato un astuccio, la nonna Giulia e il nonno Giovanni mi hanno portato una penna, una matita, una gomma e un temperino, gli zii dei quaderni e la cugina Anna dei pastelli per il disegno. La signora Gina mi ha dato il grembiule bianco che la nipotina non usa più e la signora Agnese, i libri che erano del figlio: uno con i numeri e l’altro con le lettere.
Tra una
fetta di torta e un bicchiere di vino, gli invitati mi raccontano che la scuola è un posto bellissimo: conoscerò tanti altri frugoletti, la maestra m’insegnerà cose importanti che mi serviranno per tutta vita e mi divertirò un mondo. Ed io,
a sentir tutte queste cose, non vedo l’ora che inizi.

Abitiamo in campagna e qui non ci sono bambini, solo qualche nonnina che raccoglie l’insalata nell’orto e pulisce i piselli sull’uscio e alcuni nonni che giocano a bocce tra la polvere della strada sterrata; tutt’intorno, tanti alberi da frutta, un grande prato verde, gli uccellini, le farfalle, le mosche e le zanzare. Ogni tanto, distante, si sente anche un gallo cantare.
Qualche volta vado in centro con la mamma per fare la spesa, ma non troppo spesso perché è lontano e bisogna camminare molto.

Mancano pochi giorni all’inizio della scuola. Seduta davanti alla finestra, guardo il vecchio mandorlo che comincia a ingiallire e quando mi volto, vedo sparse sul pavimento le lunghe ciocche ramate dei miei bellissimi capelli. - A scuola ci sono i pidocchi, non si possono tenere i capelli lunghi! – Non so cosa siano i pidocchi, ma allo specchio vedo riflessa la testa di un pulcino spennacchiato, disperata corro in strada piangendo. - Sai, i pidocchi sono dei piccolissimi animaletti che usano i capelli delle bambine per passare da una testa all’altra e succhiare il sangue dal cervello. – La signora Agnese cercava di consolarmi, ma inutilmente.

Ed ecco il grande giorno. Indosso il vestito marrone di zia Elvira, aggiustato per me da nonna Elsa, e sopra, il grembiulino bianco che mi è stato regalato per il compleanno. Non ci sono capelli da spazzolare, né code da intrecciare. La mamma mi aiuta a mettere la cartella sulle spalle e intanto che va a fare la spesa, mi accompagna fino alla chiesa, vicino alla scuola. La salita che divide la chiesa dalla scuola dovrò farla da sola, ma ormai sono grande. Da domani dovrò ricordarmi bene tutto il percorso, perché la mamma non potrà più accompagnarmi. È molto lungo, ma non è difficile: è quasi tutto dritto, mi devo solo ricordare di girare a sinistra dopo la ferrovia; di nuovo a sinistra quando vedo il negozio che vende i mattoni; a destra dopo il verduriere, e di nuovo a sinistra prima della chiesa, ma soprattutto devo assicurarmi che non arrivino auto o carretti quando attraverso la strada.

Davanti alla scuola ci sono tantissimi bambini, non ne avevo mai visti così tanti. Tutti accompagnati da mamma e papà. I maschietti hanno un grembiule nero e le femmine uno bianco come il mio. Non vedo l’ora di conoscerli tutti!
Dal cancello del giardino esce una signora molto alta e magra con i capelli grigi e corti, tutti arrotolati come se avesse dimenticato di togliere i bigodini: è la maestra. Apre un grosso libro e chiama tutti per nome, ci fa mettere in fila e ci accompagna dentro la scuola. Nel corridoio ci dice di fermarci poi, a uno a uno, ci indica, dove sederci nell’aula. Ora è il mio turno. – Mio Dio, ma cosa ti hanno fatto ai capelli! Se non avessi il grembiule bianco, ti avrei scambiato per un maschio! – Tutte le bimbe hanno splendidi capelli lunghi legati con grandi fiocchi, tutti di colori diversi, così belli non li avevo visti mai. I miei, la mamma li legava sempre con le stringhe rotte delle scarpe di papà.
Il mio banco è l’ultimo a destra, nell’angolo attaccato al muro.

La maestra ci spiega subito le regole: quando suona la prima campana, alle otto e dieci, tutti dobbiamo essere in aula; alla seconda campana dobbiamo avere i libri, i quaderni e le penne sui banchi. Soltanto tra le dieci e trenta e le dieci e quarantacinque, durante l’intervallo, è permesso mangiare e bere, e, per alzata di mano, andare in bagno, ma mai alzarsi dai banchi. La punta alle matite si può fare tra la prima e la seconda campana. Buttare la carta nel cestino è consentito solo alla fine dell’intervallo o al termine delle lezioni. Per il resto del tempo bisogna stare in silenzio, ascoltare, scrivere e leggere, non si parla se non interrogati, non si guarda in giro e non si dorme. Ma in tutto questo guazzabuglio di regole, ho paura che abbia dimenticato di dirci quando si gioca.

All'uscita della scuola mamme e papà corrono incontro ai loro figli, li baciano, li abbracciano, prendono loro la cartella dalle spalle e per mano si avviano verso casa chiacchierando delle cose fatte.
Io m’incammino con passo veloce. A casa la mamma mi starà già aspettando per mangiare insieme, sicuramente avrà preparato qualcosa di squisito ed io ho un mondo di cose da raccontarle.
Quando arrivo, la porta è aperta e la tavola è apparecchiata, ma c’è un solo piatto. – Sbrigati che diventa freddo. Io ho già mangiato con papà. – E corre nell’altra stanza con il cesto della biancheria tra le mani, stende la roba e poi via nell’orto.
A cena, entusiasta, vorrei raccontare le novità della giornata: - Zitta tu! I bambini non parlano a tavola. - Mio padre è un uomo grande e grosso, fa il fabbro e quando torna a casa la sera, è stanco e non ama sentire rumori, e soprattutto non gli piacciono i bambini, per questo, anche quando non lavora, a casa non c’è mai. La mamma mi racconta sempre che prima di sposarsi era un uomo gentile, simpatico e premuroso. Poi è successo il fattaccio. Non so bene cosa sia un fattaccio, ma sicuramente è qualcosa di molto brutto, perché da allora papà è diventato un altro e il giorno del loro matrimonio è stato il più brutto della loro vita.

Dopo qualche giorno avevo capito che a scuola non si colora, non si disegna, non si parla con i compagni, ma soprattutto non si gioca. Tutti i giorni riempiamo pagine di bella scrittura e per ogni lettera malfatta la maestra ci regala uno schiaffo sulla nuca e se alziamo la testa dal quaderno, siamo subito richiamati; dice che lo fa per il nostro bene.
Pensavo che finalmente a scuola avrei conosciuto tanti bambini con cui giocare, invece i mesi passano ed io ancora non ho imparato i nomi dei miei compagni. Mi ricordo solo di Rossana perché la maestra continua a ripeterci quanto è brava e buona, di Alessandro perché ha un sorriso bellissimo e di Davide perché è seduto davantia me. Comincio a pensare che la scuola non sia poi quel posto meraviglioso di cui tutti parlano.

Un giorno, tornando a casa, vedo mio padre in fondo la strada guardare dritto verso di me: mi sta aspettando. Che strano, lui a casa non c’è mai. Mentre mi avvicino, vedo i suoi occhi pieni di rabbia. Rapido mi afferra forte per un braccio e mi trascina in casa. – Aspetta Antonio, chiudo le finestre così la gente non sente. – Improvvisamente comincia a picchiarmi, io mi faccio piccola, piccola in un angolo e con le mani cerco di ripararmi, ma lui non smette. – Antonio, non sulla testa! – Lui continua furioso. Io non capisco perché mi sta facendo questo, non capisco cosa succede e ho tanta paura. – E la prossima volta che ti permetti di disonorarmi ti ammazzo. – E se ne va chiudendomi a chiave da sola nella mia stanza. Che cosa posso avere fatto di così terribile, non capisco. Mi sento sola e spaventata, continuo a tremare, le braccia e la schiena mi fanno tanto male e non riesco a smettere di piangere. Passano le ore e ancora non capisco. Poi la mamma viene con un bicchiere d’acqua e mi spiega che la maestra è stata al bar e davanti a tutti ha detto a papà che io in classe mi distraggo giocando con la matita e questo l’ha fatto terribilmente infuriare. Ho smesso di giocherellare con la matita.

Qualche giorno dopo la maestra gli racconta che ho interrotto la lezione per chiedere di andare in bagno. Tornata a casa, le finestre sono già chiuse e papà mi aspetta sull’uscio con la cinta tra le mani. Non faccio nemmeno in tempo a entrare che la fibbia mi colpisce la schiena e poi calci e pugni. – Antonio, non sulla faccia. – Non c’è nessuno a difendermi, nessuno che mi protegga: sono sola. Lui se ne va e la porta si chiude. La faccia mi fa tanto male, tutt’intorno all’occhio mi brucia, dal naso mi esce molto sangue e non so come fare per fermarlo. Non c’è nessuno che mi aiuti, nessuno che mi stringa tra le braccia, nessuno è vicino a me, sono sola. – Papà ha ragione, devi imparare che le regole vanno rispettate. Al bagno si può andare solo durante l’intervallo.Devi imparare a trattenerti. Non puoi fare cosa vuoi, devi ubbidire. – Chiude la porta di casa e va nell’orto.

Un altro giorno la maestra torna al bar per dire che devo esercitarmi di più nella scrittura perché non sono abbastanza brava e di nuovo ho sentito la cinghia colpirmi con rabbia. Da quel pomeriggio ho dovuto cominciare a copiare il libro “Cuore”, di Edmondo De Amicis, parola per parola.

E così, un giorno mi cade la penna, un giorno dimentico di fare la punta alla matita, un giorno bagno il quaderno con le lacrime… e ogni volta la cintura di mio padre sbatte con violenza su schiena, braccia e gambe ormai piene di tanti segni rossi e blu.

All’inizio, tornando a casa, dopo la scuola, cantavo, saltellavo e raccoglievo sempre dei fiorellini da portare alla mamma o le arance selvatiche per fare la marmellata e, anche se nessuno passava mai un po’ di tempo con me, ero comunque contenta. Ora il mio passo è lento, lentissimo e la cartella mi sembra sempre più pesante. Penso tutto il tempo a come fare per fuggire, ma se scappo dove vado, dove mi nascondo, non ho nemmeno un’amica, nessuno con cui parlare, nessuno che mi aiuti, nessuno che mi voglia bene, sono sola. Vago per le strade sperando che mio padre si stanchi di aspettare e almeno oggi mi risparmi, invece lui è sempre lì con la sua cinta. E quando sono troppo lenta, è peggio perché l’attesa lo innervosisce ancor di più. E mentre spero che un’auto si sbagli e mi venga addosso, mi chiedo perché dovrei vivere se nessuno mi vuole.

Intanto giunge la primavera e il mandorlo è di nuovo tutto bianco.
Nel mio girovagare, in un bidone della spazzatura trovo un vecchio telefono di legno. Lo nascondo in tutta fretta nella cartella e lo porto via con me: è un po’ rotto, ma forse posso aggiustarlo.
Ho sempre desiderato dei giocattoli, ma la mamma dice che non servono: in campagna ci sono tante cose con cui divertirsi. Una volta con due patate, quattro zucchine e qualche stuzzicadenti, sono riuscita a farmi una bambola, ma poi la sera è annegata nel minestrone.




Anche oggi mi attende la cintura del babbo che mi dice che quando il naso cola, bisogna soffiarlo e non tirare su: sono una bambina maleducata! Ho dolori ovunque e quandorespiro, mi fa tanto male il petto. Una mano mi sanguina, ma con un fazzoletto arrotolato stretto, non si vede. Oggi però sono contenta e tutto mi sembra più sopportabile.
Quando la mamma va nell’orto, dalla cartella prendo il telefono. Lo abbraccio e lo stringo fortissimo: è mio! Che bello, finalmente ho qualcosa di mio, non posso crederci, è mio. Ora tutto mi sembra più splendente, sono così contenta.
Guardo subito come posso aggiustarlo. In cantina cerco la cassetta degli attrezzi. Trovo le giuste viti, cambio la corda tutta sfilacciata, svito la rotellina con i numeri e quella per mettere il dito e con l’inchiostro per la penna stilografica e un po’ di cotone, lo tingo tutto d’azzurro. Poi lo nascondo sotto il letto. La sera prima di andare a dormire controllo se il colore è asciutto e infine riavvito le due rotelline. Ora è perfetto e come risaltano bene i numeri bianchi sull’azzurro. Lo nascondo subito nella cartella. Nessuno me lo porterà via: è mio e di nessun altro. Da adesso in poi starà sempre con me, è il mio segreto. Ora posso parlare con qualcuno. Sì, questo è il mio
telefono, questo è il mio amico, ora anch’io ho un amico con cui parlare. Ora non mi sento più così sola. Questo è il mio amico speciale. Ora sono felice!


(NdR) Lara è morta per percosse la vigilia dell’ultimo giorno della prima elementare. Lara aveva solo sei anni. Lara aveva un solo amico: il suo telefono azzurro.




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