venerdì 18 aprile 2014

Una Vita tra i Tessuti

di  Simona CASAGRANDE


Stand numero 12. Soffitto di stoffe, pareti di stoffe, corridoi di stoffe. Ci sono velluto, chiffon, organza, seta, cotone, taffetà, georgette, jacquard, raso, broccato e tutti in talmente tanti colori che nemmeno l’arcobaleno li potrebbe contenere. E poi ricami, paillettes, perle… un paradiso per gli occhi di ogni donna che ama cucire.


In un angolo, dietro agli scatoloni ancora confezionati, perfettamente mimetizzata tra le pezze, giace una coperta verde mela dalla quale esce una lunga chioma di capelli neri, delicatamente adagiata sul pavimento.

Sandeep, ha lavorato tutta la notte e ora sta dormendo; è qui solo da due mesi, ancora non conosce l’italiano, ma dal primo giorno lavora nello stand con suo fratello.
Non abita lontano da dove lavora, ma quando non comprendi la lingua e la cultura del posto dove vivi, tutto è lontano. Ogni mattina percorre la stessa strada, gli stessi portici, gli stessi giardini e incontra sempre le stesse persone, ma troppo diverse da lei: chi corre al lavoro, chi accompagna i bambini a scuola, chi attrezza la bancarella, chi apparecchia un tavolino per leggere le carte, chi si aggira curiosando, chi pratica tai chi chuan, chi improvvisa un taglio di capelli dentro una fontana, chi attende, chi sonnecchia sul prato. Ma anche le facce che potrebbero esserle famigliari, non le capisce: sente tanti suoni differenti che non riesce ad afferrare e sono peggio del silenzio perché vorrebbe, ma non li può decifrare.

In India ci sono ben 30 diverse lingue e 2000 dialetti. Sandeep, è nata e cresciuta in un paesino del Punjab, un minuscolo stato del nord, dove si parla Punjabi.

Fin da bambina con la nonna tesseva lana, cotone, seta; crescendo ha imparato le tinture e poi a ricamare e cucire. La nonna le raccontava spesso di un uomo piccolo e minuto, vissuto molto tempo fa, Gandhi, che ripeteva continuamente che il telaio sarebbe stato la salvezza dell’India, perché l’antichissimo artigianato tessile indiano alimenta da sempre il commercio con l’estero. Per questo moltissime famiglie oggi ne possiedono uno e al centro della bandiera nazionale vi è un charka, la struttura su cui si stende la matassa di cotone da filare, simbolo dell’autonomia.
Ora Sandeep non indossa più i suoi coloratissimi saree, ma dei semplici jeans e una maglietta e guarda gli abiti del suo paese, in vendita nelle vetrine di piazza Vittorio, con grande nostalgia. Ogni giorno vede donne africane, magrebine e indiane comprare splendidi tessuti, per confezionarsi le vesti, che vorrebbe poter indossare anche lei, ma suo fratello non approva. - Le ragazze italiane non indossano certi vestiti! - Anche Gagan, se pur di religione sikh, da quando è arrivato, quattro anni fa, non porta più il turbante e ha tagliato barba e capelli: è meglio non apparire!
Sul super tecnologico cellulare, però, li accompagna un’immagine del Gurudwara (un tempio tutto d’oro), un ritratto del Guru, alcuni inni del Granth, una figura del Khanda e una foto dei nipotini vestiti di abiti tradizionali sikh. E mai si separano da Kara, il braccialetto di ferro, simbolo della loro religione.

Allo stand numero 12, Gagan si occupa delle clienti, degli ordini e dei conti: molte habitué contrattano il prezzo delle stoffe, portano via la merce e pagheranno quando non si sa, la lista dei debitori è lunga. Sandeep riordina, pulisce e la notte confeziona saree, abiti per la danza del ventre, ma più di altri lehenga (l'abito nuziale femminile) e shewani (quello maschile), per i giovani che, cresciuti qui, torneranno al loro paese per sposarsi.
Anche Gagan e sua sorella torneranno presto a casa per maritarsi, ma non con indiani cresciuti in Italia, anche se della loro stessa religione, sono troppo europeizzati.
Sandeep ha 26 anni e quando cuce i lehenga per le altre ragazze, sogna il giorno delle sue nozze e immagina già come sarà la sua veste, rigorosamente rosso-bordeaux e oro. Tra poco più di un anno sposerà un uomo che ancora non conosce, ma è già felice.

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